Nel 1901, nello stato del Wisconsin (USA), il dottor
Matthew Rodermund condusse un esperimento senza precedenti.
Si cosparse volontariamente il viso, le mani e i vestiti
con il pus delle pustole di una paziente affetta da vaiolo, dopodiché cominciò
a entrare in stretto contatto con altre persone: toccava i loro volti, cenava
con la famiglia, viaggiava in treno, curava i pazienti, giocava a carte in un
circolo.
Il risultato?
Zero contagi. Nessuno si ammalò!
Medici, funzionari e giornali tentarono di accusarlo di
irresponsabilità, lo misero in quarantena, ma furono costretti a ritirarsi: non
c’era nemmeno un caso confermato di contagio.
Questo caso rappresentò una sfida non solo alla scienza
medica dell’epoca, ma a tutta la moderna visione delle malattie infettive,
basata sulla paura e sul dogma.
In un certo senso, il dottor Rodermund fu fortunato: nel
1901 non esistevano test truffaldini come il PCR, con cui oggi dobbiamo
confrontarci.
I medici dell’epoca erano costretti ad osservare la realtà,
non dati digitali con esiti “positivi”.
E poiché dopo i suoi contatti nessuno si ammalò, tutte le
accuse furono ritirate.
Oggi, però, sarebbe andata diversamente.
Con l’utilizzo del PCR – basato su sequenze genetiche che
non hanno alcuna relazione con presunti “virus”, la cui esistenza non è mai
stata scientificamente dimostrata – e con un numero sufficientemente alto di
cicli di amplificazione, chiunque può essere dichiarato “portatore
asintomatico”.
Il dottor Rodermund, e tutti coloro con cui era entrato in
contatto, oggi sarebbero stati rinchiusi, stigmatizzati e sottoposti a misure
coercitive.
Ma allora vinsero i fatti.
E sono proprio casi come questo a ricordarci che la vera
scienza richiede coraggio, onestà e osservazione diretta e non fede nella magia
digitale e paura di un “nemico invisibile”.